Tra fine aprile e inizio maggio, un gruppo di astigiani ha viaggiato insieme all’ISRAT (Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea) di Asti, tra Austria e Repubblica Ceca. Ecco alcune impressioni.
Questo fiabesco edificio bianco è il castello di Hartheim, vicino alla città di Linz, in Austria. Tutt’intorno un parco dove pascolano le caprette.
In verità questo è il castello degli orrori.
Qui, a partire dal 1939, il regime nazista fece le prove generali dei campi di sterminio, iniziando dall’eliminazione delle persone disabili: disabilità fisica, psichica nonché disabilità ‘sociale’ (alcolisti, senzatetto, prostitute, oggi inserirebbero i tossicodipendenti…).
E’ il famigerato progetto T4, l’eliminazione delle vite ‘non degne di essere vissute’. Le vite di scarto, quelle che inquinavano la purezza della razza ariana. Sterilizzazioni, esperimenti scientifici su cavie umane, soppressione nelle camere a gas. Verso la fine della guerra, Hartheim servì anche da supporto logistico al vicino campo di Mauthansen, che non riusciva più a star dietro ai ritmi delle uccisioni di massa. Allora arrivarono, e vi trovarono la morte, anche tutti gli altri: gli ebrei, gli oppositori politici, gli omosessuali, i sinti e i rom.
La città di Sesto San Giovanni ha pagato il suo tributo di vittime. E non sono gli unici italiani ad aver trovato la morte ad Hartheim.
Non si trattò di follia, sarebbe una spiegazione troppo comoda. Le teorie sull’eugenetica circolavano già da tempo, in Europa e negli Stati Uniti. Il nazismo creò il contesto politico e ideologico favorevole al loro dispiegamento, e le portò alle estreme conseguenze. E seppe anche creare il consenso necessario, facendo leva sul costo economico che lo Stato doveva sopportare per mantenere in vita questi esseri ‘difettosi’. Costi che, facevano notare, si scaricavano sui lavoratori tedeschi già provati dalla crisi economica. Questa propaganda funziono’? Purtroppo funzionò. Questo è un terribile monito per il presente e per il futuro. Si inizia con un razzismo soft, poi è facile scivolare su di un terribile piano inclinato, al cui termine c’è la camera a gas.
Deutschland uber alles?
America first?
Prima gli italiani?
Con le parole di Einstein: “c’è una sola razza, quella umana”.
Il campo di Terezin (70 km da Praga) era una prigione della Gestapo. Presenta due particolarità. La prima: vi furono internati (e in grandissima parte uccisi) molti bambini. Questi piccoli hanno lasciato molti disegni, che fortunosamente si sono conservati.
Una bambina ha disegnato Biancaneve.
Raccontarsi una favola per resistere a quello che c’era intorno.
L’altra particolarità di Terezin è molto attuale. I nazisti erano maestri di propaganda e maneggiavano molto bene quelle che oggi chiamiamo fake news. Terezin era l’unico campo in cui erano consentite visite della Croce Rossa Internazionale. Allo scopo, furono allestiti al suo interno alcuni spazi puliti e decorosi, per dimostrare come erano ben trattati gli ospiti. La foto a fianco mostra uno di questi spazi, ovviamente mai usati, aperti solo ad uso degli ispettori.
La realtà era quella di queste baracche.
Bisogna immaginarle stracolme di umanità. La guida del campo (tra l’altro, una signora delle Filippine) ci ha sottoposti ad un esperimento. Ci ha fatti entrare tutti (eravamo una cinquantina) in una cella. L’abbiamo riempita, ci stavamo giusti giusti, in piedi. Lì dentro, ci ha detto, dovevano starci in 60, a volte anche molti di più. E mangiare quel poco. E dormire. E per i bisogni (di tutti!) un unico secchiello. Anche così si schiacciano gli esseri umani, la loro dignità.
Le stelle gialle che le persone di religione ebraica erano obbligate a portare sul vestito.
Questo è un varco nelle mura (Terezin era una fortezza asburgica riadattata per l’uso). Da qui alcuni tentarono di fuggire, ci riuscirono in pochissimi.
Nel maggio del 1945, i prigionieri di Terezin furono liberati dall’Armata Rossa sovietica. Nella foto, i festeggiamenti con un soldato sovietico.
Il monumento che ricorda i soldati dell’Armata Rossa che persero la vita nella battaglia per liberare Terezin.
Una lapide. All’uso ebraico, vi sono deposte pietre.
Perché i fiori appassiscono, le pietre restano.
L’ingresso del campo. Si può leggere il terribile motto che campeggiava all’ingresso di tutti i lager. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
Eh no, lavoro (arbeit) è una parola pulita!
Qui siamo nella piazza principale di Linz, è pronto il palco del 1° maggio. Si può leggere “Tag der arbeit”, la giornata del lavoro. E questa parola ha ritrovato il posto che le spetta.
Luisa Rasero